MODELLO DI RICHARDSON

MODELLO DI RICHARDSON

modello di Richardson

In ognuno di noi esistono qualità resilienti innate, propensioni alla resilienza che vengono, durante il corso della vita, nutrite e rafforzate attraverso momenti di sospensione dello stato di equilibrio. 

Tra i diversi modelli di resilienza disponibili in letteratura, di particolare importanza è quello formulato da Richardson (nel 1990, poi ripreso nel 1992 e 2002), direttore del dipartimento dell’Health Promotion and Education presso il College of Health, dell’University of Utah.

Secondo Richardson la resilienza è l’energia che consente a ciascuno di realizzare la tendenza attualizzante, è quella dote che permette, passando attraverso le difficoltà e la rottura degli equilibri esistenziali, di accedere alla motivazione e orientare alla ripresa e alla crescita personale, all’altruismo e alla conoscenza in armonia con il proprio spirito.

Secondo Richardson, la valutazione dell'influenza di un trauma sulla vita di un soggetto non può essere fatta con metodi o secondo principi ispirati all'oggettività, ma piuttosto è necessario mettere al centro del processo di valutazione la percezione personale che ha l'individuo del trauma.

Proprio il riconoscimento di questa nuova identità e la ridefinizione di nuovi obiettivi di vita può sostenere il soggetto nel superamento delle avversità. Nello specifico, un iniziale stato di “omeostasi biopsicospirituale” è alterato dall’interazione con eventi di vita avversi e, in seguito, ripristinato dagli individui attraverso una prima fase di distruzione e una successiva di reintegrazione. Il termine “omeostasi biopsicospirituale” rappresenta tanto uno stato di equilibrio iniziale quanto una condizione di arrivo esprimendo, pertanto, l’adattamento mentale, fisico e spirituale a una serie di condizioni esterne, siano esse positive o negative.

Secondo il modello di Richardson l’equilibrio è continuamente esposto al rischio di alterazione da parte di eventi stressanti, avversità, opportunità e altre forme di cambiamento. Una volta che l’equilibrio è compromesso, inizia la prima fase del processo (la distruzione), determinata dall’interazione tra eventi stressanti e fattori protettivi, questi ultimi di supporto alle persone per affrontare le difficoltà e mantenere l’omeostasi.

Quando le persone hanno sviluppato o arricchito queste caratteristiche sono in grado di superare con più facilità le difficoltà che incontrano. In particolare la prima fase è caratterizzata da sentimenti come colpa, paura, perplessità, confusione e smarrimento, emozioni che possono determinare la mancanza di fiducia in se stessi o la paura di non riuscire a sviluppare le capacità necessarie per affrontare i cambiamenti.

Superata la prima, prende avvio una seconda fase (reintegrazione), in cui sono gli individui a decidere, in modo consapevole o inconsapevole, quale tipologia di reintegrazione attuare. Il modello di Richardson propone quattro possibilità per questa seconda fase:

  • la “reintegrazione resiliente”, che si riferisce al processo di coping che determina la crescita, la conoscenza, la comprensione di se stessi e lo sviluppo delle caratteristiche resilienti;
  • la reintegrazione che conduce all’omeostasi iniziale, con cui s’intende un ritorno al passato, alla situazione precedente all’evento avverso, in cui non è prevista la crescita dell’individuo né lo sviluppo delle caratteristiche resilienti (non sempre questo tipo di reintegrazione è possibile come, ad esempio, nel caso di un danno fisico permanente o della morte di una persona cara);
  • la “reintegrazione con perdita”, che avviene quando le persone non sono più motivate e rinunciano ad avere speranza nel futuro;
  • la “reintegrazione disfunzionale”, che ha luogo quando le persone ricorrono a sostanze stupefacenti, a comportamenti distruttivi o ad altri mezzi per affrontare le avversità.

Alla base del modello di Richardson c'è la convinzione che l'essere umano è per sua natura predisposto alla crescita attraverso la sofferenza. Per superare le avversità, l'individuo ha a disposizione diverse fonti da cui attingere le risorse: il sistema corpo-mente-spirito e i fattori ambientali e relazionali.

Le difficoltà sono un passaggio necessario per accedere alle componenti di resilienza, perché la rottura dell'omeostasi biopsicospirituale assolve la funzione di sollecitare l'attivazione e lo sviluppo di risorse (vecchie e nuove).

In questa prospettiva, secondo Richardson, non vanno considerate come difficoltà solo gli eventi traumatici gravi, ma anche gli eventi che caratterizzano il ciclico andamento degli eventi quotidiani dell'individuo. Una mancata reintegrazione resiliente aumenta la probabilità che eventi spiacevoli attesi o imprevisti agiscano come fattori di rischio, rendendo ulteriormente vulnerabile il soggetto che non ha sviluppato le sue qualità resilienti.

Richardson propone una lettura di sintesi delle caratteristiche proprie degli individui resilienti. Secondo l'autore, è possibile farle rientrare nelle categorie di: spontaneità, etica, intuito e nobiltà d'animo.

Per spontaneità si intende l’abilità di lasciarsi guidare dall’immediatezza della propria impulsività; l’etica, è interpretata come il senso individuale e innato "di ciò che è giusto"; cioè una capacità più intuitiva di scindere il bene dal male.

L’intuito è una caratteristica che consente di mettere in atto, nel momento contingente, il comportamento più adatto alla situazione; mentre la nobiltà d’animo è vista la più alta delle caratteristiche che danno accesso alla resilienza e prevede un’elaborazione a un più elevato livello simbolico rispetto alle precedenti, per le quali si presuppone una natura viscerale, innata.

 

REFERENTE
Andrea Laudadio Andrea Laudadio



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